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Segnalato su Webtrekitalia - Portale di cultura Trek

L’ospite accanto a me è Pietro Trifone. Linguista.


Professore ordinario di Storia della lingua italiana presso l'Università di Roma "Tor Vergata", Accademico della Crusca, potete trovare più ampie sue notizie biografiche QUI.
I titoli elencati prima – insieme ad altri che possiede – possono trarre in inganno qualche lettore di questa presentazione facendogli immaginare un docente dall’aria severa e dal sussiegoso eloquio (perché, purtroppo, spesso, in Italia accade d’incontrare tipi siffatti in ambienti accademici), ebbene niente di tutto questo in Trifone. Avendo elevati valori scientifici, possiede il raro dono di una scorrevolissima comunicazione anche su temi complessi non rinunciando a una brillantezza che confina con il senso dell’umorismo. Insomma scrive libri e non tomi.
Ne sono testimonianza, ad esempio, due imperdibili volumi che ho cari sui miei scaffali: Malalingua – viaggio in un cui il lettore s’imbatte in Dante e Verga, Totò e Svevo – e Storia linguistica dell'Italia disunita - origini e approdi della disunione esistente fra noi anche attraverso il modo oggi d’insultarci.
L’occasione per incontrare Trifone, in questo che per i Terrestri è il mese d’aprile del 2015, è data dalla pubblicazione presso l’editore Carocci di un saggio da lui curato: "Città italiane, storie di lingue e culture" (400 pagine, 32 euro), il ruolo svolto dalle città nella nostra storia linguistica vista attraverso sette poli urbani affidati ad altrettanti studiosi: Torino (Claudio Marazzini), Milano (Silvia Morgana), Venezia (Lorenzo Tomasin), Firenze (Giovanna Frosini), Roma (lo stesso Trifone), Napoli (Nicola De Blasi), Palermo (Mari D’Agostino).
Parleremo, però, anche degli altri suoi eccellenti volumi.

 

Benvenuto a bordo, Pietro…
Ben ritrovato, amico mio.
La stellata e stellare chef Cristina Bowerman che illumina l’Hostaria Glass di Roma ci ha consigliato di sorseggiare durante la nostra conversazione una bottiglia di Cerasuolo 2010 prodotto da Francesco Paolo Valentini… cin cin!
Adesso ascoltami: il Capitano Picard è bravissimo, per lodarne la guida, a Roma direbbero “è un bel manico”, però noi nello spazio stiamo, schizziamo ”a manetta”, prudenza vuole che tu trasmetta sulla Terra, come sempre chiedo iniziando la conversazione con i miei ospiti, il tuo ritratto… interiore… insomma, chi è Pietro secondo Pietro…
Sono un magnifico esemplare di… povero cristo. E la storia recente mi ha persuaso che Giacomo Leopardi fosse un inguaribile ottimista. A questo punto non mi stupirei neppure se il copilota dell’Enterprise si rivelasse un depresso con manie suicide… Ma voglio confidare nell’eccezionale esperienza dell’indomito Capitano Picard.
Ti rassicuro subito. Per evitare guai, Picard è solo ai comandi e non è depresso perché gli è vietato di leggere giornali italiani e di vedere i tg.
Saggia decisione la tua.
Ora dimmi, come nasce "Città italiane, storie di lingue e culture"? Quale la sua storia editoriale?
Esistono varie storie della lingua italiana su scala nazionale, esiste anche un ampio disegno su scala regionale, ma ne manca uno fondato sulla prospettiva urbana. Eppure proprio nelle città, più che nelle regioni, la multiforme realtà italiana trova i suoi più dinamici punti di riferimento, una serie di modelli linguistici e culturali che hanno inciso profondamente sull’identità complessiva del nostro paese. È nata così la mia idea di dedicare una collana dell’editore Carocci alla lingua delle maggiori città italiane. Il volume attuale deriva da quella collana, riprendendo in veste nuova e aggiornata cinque saggi già pubblicati su Torino, Milano, Venezia, Roma e Napoli, ai quali si aggiungono succose anticipazioni di due lavori analoghi riservati a Firenze e Palermo.
Che cosa si propone questo libro?
Valorizzare il ruolo svolto dalle città nella storia della società italiana, e quindi anche delle sue vicende linguistiche. Il processo che ha portato oggi le nostre città ad accogliere circa due terzi della popolazione italiana ha origini molto antiche: già nel Trecento l’Italia vantava il primato europeo del tasso di urbanizzazione. Le città, diceva giustamente Carlo Cattaneo, «sono come il cuore del sistema delle vene». Nei centri urbani, animati da nuovi incontri e da continui scambi, da contaminazioni e rielaborazioni, si esprime tutta la vitalità di un grande patrimonio linguistico, che spazia dall’italiano ai dialetti, e viene riproposto in modi nuovi e diversi dalle successive generazioni dei parlanti di ciascuna comunità.
Scrivi in Prefazione: “… la sfida di una storia linguistica integrale non può essere affrontata con speranze di successo senza disporre di una documentazione idonea, ovvero dotata di tre prerogative fondamentali”. Puoi qui sintetizzarle?
Le tre prerogative fondamentali a cui mi riferivo sono l’ampiezza, la varietà e la continuità della documentazione. Le grandi città sono i contesti in cui si ritrovano più facilmente questi ingredienti propizi alla ricerca storica in generale e storico-linguistica in particolare. Molti centri maggiori offrono testimonianze in grado di sorreggere ipotesi storiche attendibili riguardo all’intero repertorio linguistico delle comunità urbane, inclusi i rispettivi dialetti, oltre che le varietà locali dell’italiano. In questo senso può dirsi che le città costituiscono uno straordinario banco di prova per un’ipotesi di storia linguistica integrale. Lo studioso concentra il suo sguardo su un microcosmo storicamente accessibile per scandagliare in modo più completo e profondo le realtà del passato.
Talvolta si sostiene che gli sviluppi dell’italiano oggi nascono dai suoi rapporti non con i dialetti ma con le lingue straniere. Ti trova d’accordo o no quell’opinione?
Gli sgroppini non li bevono solo i veneti, l’abbiocco non viene solo ai romani, gli inciuci non sono un’esclusiva napoletana. Secondo miei calcoli inevitabilmente approssimativi, ma nell’insieme abbastanza attendibili, solo nel cinquantennio che va dal 1951 al 2000 si sono diffuse in italiano più di 1600 parole dialettali… Per fortuna l’italiano si apre al contributo delle lingue straniere senza tradire le sue estese e potenti radici popolari. Conversando in famiglia, con amici o conterranei anche le persone colte e soprattutto i giovani non rinunciano al piacere del dialetto, e lo mescolano all’italiano per aggiungere un sapore particolare al discorso.
Voglio ricordare ai miei avventori un paio di tuoi titoli che trovo (e non sono il solo) imperdibili.
In “Malalingua” hai indagato su tutto quanto, a partire da uno strafalcione, può condire e rendere espressivamente vivace il nostro scrivere e parlare. Perciò quel libro è anche una lettura divertente. Che cosa principalmente ti ha spinto a scrivere quel volume?
Ti sembrerà strano, me è stato soprattutto un desiderio di rivalutare l’errore linguistico, o meglio un certo tipo di errore linguistico. Quante volte ho segnato con la matita rossa o blu le improprietà lessicali o le incoerenze sintattiche dei miei studenti, pensando in cuor mio che quegli errori avevano in realtà un’evidente logica interna, una straordinaria energia creativa, persino una loro ambigua bellezza! E allora mi sono messo a rovistare nella pattumiera della lingua italiana, e ho scoperto che effettivamente c’era dentro una maleodorante spazzatura, ma c’erano anche delle autentiche perle di eloquenza non ortodossa, dalle parolacce di Dante alle invenzioni di Totò. Non a caso proprio uno sberleffo del principe della risata si staglia con tutta la sua dirompente espressività sulla copertina del volumetto.
In “Storia linguistica dell’Italia disunita” rilevi che una disunione italiana è riscontrabile negli insulti che siamo capaci di scambiarci soprattutto dovuti a un acceso campanilismo.
Quei vocaboli (da “beduino” a “baluba”, da “sudici” a “polentone”, eccetera) tradiscono, o sono, un segnale di razzismo?
Ho compilato un “glossarietto dell’italiano disunito”, dal lumbard al terun, dal ciociaro burino al genovese spilorcio; ma prima di arrivare a parlare di razzismo a proposito di certe parole o espressioni, bisogna capire bene l’intenzione di chi le usa. A Roma capita addirittura che alcune parolacce si carichino di un senso buono: una frase come “mortacci, che abbuffata!”, per esempio, esprime (molto grevemente) la soddisfazione di chi ha concluso un lauto pranzo; e si sa che un “figlio di buona donna” può essere una persona tanto spregiudicata quanto accorta. Chi allude al “rischio di un attentato terronistico” è probabilmente un innocuo mattacchione, mentre chi dà del “frocio terrone” a qualcuno manifesta chiari sintomi di omofobia e di razzismo. Distinguere tra questi diversi casi non è sempre facile, ma è certamente indispensabile, se non vogliamo contentarci di una lingua ammodino, ma priva di energia e vivacità.
Spesso si sente dire che la lingua italiana è attaccata da vari mali. Ad esempio, come in un recente appello di Annamaria Testa, da qualche goffo anglicismo anche in documenti istituzionali.
Da chi e da che cosa deve difendersi la lingua italiana?
Sì, la lingua italiana deve difendersi; più precisamente i parlanti consapevoli devono difendere la loro lingua dalla sciatteria delle frasi fatte, dall’accoglienza acritica delle mode del momento, dalla resa incondizionata all’egemonia della cultura angloamericana, dalla dequalificazione degli studi, dalla cialtroneria massmediale… In passato l’italiano doveva difendersi anche dai dialetti, ma oggi la situazione è cambiata: tra la monnezza e il trash, preferisco senz’altro la monnezza, che almeno non si dà tante arie. Il parlante consapevole può permettersi tranquillamente il lusso di qualche infrazione della grammatica e del bon ton linguistico, motivata da particolare ragioni stilistiche. Se Dante ha detto che l’Italia era un bordello, avrà avuto le sue buone ragioni.
Ci avviamo alla conclusione del nostro incontro.
Che cosa pensi sulla lingua praticata dalle più giovani generazioni (per i non addetti ai lavori, segnalo il recente “Slangopedia, dizionario dei gerghi giovanili”, Stampa Alternativa).
Quali segni t’interessano in quelle forme di comunicazione?
Mi diverte la creatività del gergo giovanile, e apprezzo la brevità degli sms e dei tweet. Si tratta di forme del discorso parlato e scritto che funzionano benissimo in determinati contesti. Naturalmente le stesse forme non vanno bene in situazioni più formali. Il rischio è che, usando abitualmente quel modo di comunicare, i giovani perdano la capacità di produrre testi più elaborati e complessi. Tocca soprattutto alla scuola fare sì che ciò non accada, attraverso adeguati esercizi di addestramento a diversi tipi di scrittura.
Prima di lasciare i miei ospiti di questa taverna spaziale, li costringo crudelmente a fare una riflessione su Star Trek, non necessariamente elogiativa… come sai, Roddenberry ideò il suo progetto avvalendosi non solo di scienziati ma anche di scrittori, e non soltanto di fantascienza, tanto che ST risulta ricca di rimandi letterari sotterranei, e talvolta non troppo sotterranei…che cosa rappresenta quel videomito nel tuo immaginario? Ammesso che qualcosa rappresenti, s’intende…
La tua cattiveria finale mi fa ritornare in mente una frase di Kor, il valoroso e spietato comandante di Klingon: “Che schifo di amico ti sei scelto”...
Siamo quasi arrivati a Trifonia, pianeta abitato da alieni che parlano la Malalingua… se devi scendere, ti conviene prenotare la fermata. Stoppiamo qui l’intervista, anche perché è finita la bottiglia di Cersasuolo 2010 di Valentini consigliata dalla chef Cristina Bowerman del Glass di Roma…
Posso confermarti il forte interesse di Trifonia per il Cerasuolo di Valentini. A presto!
… ed io ti saluto com’è d’obbligo sull’Enterprise: lunga vita e prosperità!

 

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